Antropoesia del paesaggio (Nuoro)

Salendo su belvedere del monte Ortobene, affacciato come una sorta di balcone sulla vallata che lo divide dal monte Corrasi, si apre uno scenario capace di spiegare perché Salvatore Satta definisse la montagna di Oliena il «monte più bello che Dio abbia creato» (Satta, 1999: 96, or. 1979). Le rocce granitiche visibili al di sotto dello strapiombo che scende progressivamente verso valle sfumano pian piano in un fitto intreccio di linee che vanno a disegnare i campi. Questi vengono abbracciati dalle linee più sinuose e dolci dei corsi d’acqua e delle strade. A sinistra la montagna di Dorgali, a destra il piccolo centro di Orgosolo fanno da quinte ad Oliena che si adagia sulla salita calcarea che porta lo sguardo verso la cima più alta di tutto il Supramonte. Quella che potrebbe sembrare una perfetta cartolina tradisce però l’idea di immobilità che all’inizio appare governare questa scenografia. Al suo interno infatti diversi attori si muovono e animano la scena: le auto con i fari accessi percorrono la Strada Provinciale che collega Nuoro ad Oliena, il vento muove le chiome della macchia e degli alberi sul versante del monte, in alto cornacchie e gabbiani si contendono il cielo con traiettorie circolari. Le persone sembrano invisibili a causa delle foschia ma i loro segni sono i tratti più caratteristici di questa immagine. Lo stesso belvedere da cui si sta guardando questo panorama è una scelta operata in base alle morfologia del monte Ortobene, «più una montagna da cui si guarda che un punto di riferimento a cui si guarda» (Brotzu Renato, Ruiu Domenico, et al., 2021: 18), gli incendi susseguitisi nel corso degli anni sul versante del monte assieme al pascolo brado hanno selezionato per i nostri occhi le specie vegetali che vanno a comporre il verde che ricopre i massi di granito, i campi attorno ad Oliena sono stati disegnati da aratri e lavoro, nella montagna definita fra le più selvagge di tutta la Sardegna un agriturismo e la strada per arrivarci hanno creato un punto di riferimento. Anche dove sembra più difficile accorgersene «non c’è segno, anche nel paesaggio, che non esprima qualcosa dell’uomo, della società in cui vive.» (Turri, 1974: 138)

Questo ambiente descritto in modo tale che da esso emerga la relazione fra gli elementi naturali e la comunità che vive il territorio prende la forma di un paesaggio che potremmo definire come l’«interazione fra elementi fisici e un tessuto di valori simbolici, percezioni e narrazioni» (Ligi, 2016: 7). In questo articolo mi piacerebbe soffermarmi su una particolare forma di narrazione dei paesaggi, una modalità di raccontare le storie che riguardano questi luoghi impregnati di memorie e significati: la poesia.

Chi in età scolare non è stato costretto a recitare a memoria poesie di ogni genere, chi non si è lasciato incantare da certe parole scorgendosi in quelle righe, e chi non ha desiderato che certe frasi non esistessero affatto, perché troppo dolorose da leggere (se non vi è successo forse non avete mai letto Pavese). La poesia nasce dove non c’è altro modo di dire le cose, dove la prosa difetta di elementi necessari a quello che si vuole esprimere, e la scelta di utilizzarla per parlare di paesaggi in quest’ottica risulta davvero comprensibile.

Chi, capitando a Nuoro, non si è mai imbattuto nella nèula (nebbia)? Nel quartiere di Santu Predu, con le sue case diroccate e i vicoli stretti, i fuoristrada parcheggiati che ai nasi più attenti possono suggerire una recente visita agli animali in campagna, anche la nebbia ha qualcosa da dire. Ma a Nuoro le poesie sono di casa, basta fare una passeggiata per le vie del centro.   

La poesia non è di casa solo perché camminando per strada se ne possono leggere diverse, ma anche perché Nuoro ha dato i natali a due voci limpide, che ancora oggi, io credo, conservano il potere di raccontare questo pezzo di mondo.

Sebastiano Satta (1867-1914) non si limitò a scrivere, interessandosi anche di pittura e di fotografia, ma sicuramente il suo nome viene ricordato per aver contribuito a narrare la propria città e la propria isola in numerosi componimenti caratterizzati da un forte trasposto emotivo. Al loro interno si rintracciano diversi aspetti della cultura pastorale, legata in maniera intrinseca alla natura del territorio, come in questa poesia Notte nel salto accompagnata da un’illustrazione autografa

Nel suo impegno a narrare il mondo pastorale e la sua relazione con il paesaggio Satta coglie con occhio rivoluzionario un dato che ancora oggi fatica ad inserirsi nella narrazione comune. Il pastore è ancora associato ad un individuo solu che fera (solo come un animale), isolato e, per questo, agreste, schivo e anche piuttosto sgradevole. Ma la solitudine, quando è scelta, può parlare anche di autodeterminazione e farsi fulcro della narrazione che pastori e caprari forniscono di se stessi. Essi possono decidere autonomamente per sé e per i propri animali perché le loro abilità e conoscenze permettono loro di relazionarsi con gli elementi naturali, senza che possa esistere al mondo una figura che possa imporsi e condizionare questo rapporto se non la natura stessa. Questo essere custodi di saperi preziosi, che permettono agli animali sotto la loro custodia di produrre un bene di consumo fondamentale, gli garantisce il controllo della propria attività e la possibilità di godere dei luoghi dove si trovano e attribuirgli significati che trascendono l’“utilità” a favore di un vero e proprio «sentimento dei luoghi» (Ligi, 2016) che non manca di arricchirsi di apprezzamenti di tipo estetico.

Nella tanca

Ecco: non fu che un subito

Sogno del sole il raggio;

E lunghe fredde assidue

Stagnagn sul pian selvaggio

L’ombre in eterno. Stendesi

Nuda silenziosa,

Sino ai lontani vertici,

La terra lacrimosa.

Solo un pastore, immobile,

Col manto e con la tasca,

Guarda quel regno gelido

Di tenebra e burrasca…

Ma la bellezza non è un pesante orpello con niente da dire. Guardiamo solo per un momento, come nella prima immagine, il monte Corrasi e la sua Oliena.

Candida, a pes de Sovana distesa,

de binzas e d’ulias inghirlandada

pares un’odalisca addormentada

sutta mantos de seda, che prinzesa.

Sos abitantes tuos bestin d’oro,

de grana, de broccadu e fine seda,

ca sos sartos e tancas dana meda

vruttosa, chi commerciana in Nugòro.

E rendet meda cosa sa pastura,

meda cosa su latte ei sa lana,

bellissima borgada de Oliana

mama de vizzos chi no han pagura

(«Candida, ai piedi di Sovana distesa/di vigne e d’olivi inghirlandata,/tu sembri un’odalisca addormentata/sotto manti di seta, qual principessa./I tuoi abitanti veston d’oro,/di filigrana, di broccato e seta fina,/perché gli ovili e le terre danno molti/frutti che commerciano in Nuoro./Molto rende il pascolo,/molto il latte e la lana,/bellissima borgata di Oliena,/madre di figli che non han paura. »)

Nelle parole del poeta dorgalese Giovanni Mulas (Dolores Bellodi Turchi, 1978: 55) si evidenziano non solo le principali attività economiche del paese, e la ricchezza che ne deriva, ma anche il legame con la vicina città di Nuoro. Gli ovili e i pascoli vengono inoltre associati ad alberi i cui frutti consentono alla gente del paese di vivere nella ricchezza, al punto da poter decorare i propri abiti con la filigrana. Quei figli e quelle figlie che non hanno paura crescono sotto la vetta più alta del Supramonte, l’asprezza delle rocce calcaree, l’ombra lunga che ricopre il paese sono compagni di giochi.

Ritornando a Nuoro e alla sua voce più famosa, Grazia Deledda (1871-1936), non di rado alle pubblicazioni relative al monte Ortobene si fanno precedere le sue celebri parole:

No, non è vero che l’Ortobene possa paragonarsi ad altre montagne; l’Ortobene è uno solo in tutto il mondo: è il nostro cuore, è l’anima nostra, il nostro carattere, tutto ciò che vi è di grande e di piccolo, di dolce e duro e aspro e doloroso in noi.

Senza nulla voler togliere alla potenza di queste frasi, che è impossibile leggere senza cogliervi una profonda affezione per un luogo di sentimento quale è l’Ortobene per i Nuoresi, confesso di preferire un altro scritto dell’autrice: la poesia Paesaggio di Granito, inserita all’interno della raccolta postuma Paesaggi Sardi (1938) e di cui mi limito a riportare solo alcuni versi per ragioni di ampiezza:

I boschi d’elci coprono le cime

delle dolci montagne, le più belle,

le più verdi montagne che un poeta

 possa veder in sogno.

O mio forte Orthobene, che rinchiudi

il cerulo orizzonte, la visuale

consueta dei giorni solitari,

 dolcissima muraglia

che i sogni miei l’attieni e li respingi

col vento della notte silenziosa,

rifletter potess’io nei versi miei

 la grigia, alta e superba

poesia dei graniti scintillanti

nel sardo cielo diafano e profondo,

dei boschi alti e solenni qual visione

 d’asceta innamorato!

Io son passata là dove i pastori

sol passano e i banditi, e forse mai

più vi ritornerò, ma sempre, sempre

 avrò nella memoria

le grandi roccie a l’ombra dei pensosi

elci fioriti, roccie ricordanti

le alte are di Druidi, ricoverte

 di rosso musco e d’edera.

Roccie che al canto delle gazze, al l’arido

soffiar del vento mattutino ancora

olezzan di leggende strane, e a sera

 invitano il pastore,

fiero dall’occhio acuto di sparviero,

ad esplorarle in cerca di misteri

umani e sovrumani, di tesori,

 d’arche, palagi e tombe.

Il bosco tace e pensa […]

Ed io salgo, io salgo; la stanchezza

gli occhi mi vela; ai gambi flessuosi

dell’asfodel la man s’appiglia, eppure

 guardo più su e sorrido

al vertice agognato, e quando giunta

siedo inebbriata sotto il fresco cielo

fra cespugli odorosi, e al mio sorriso

 sorridon nell’azzurro

pedata dello spazio le adorate

terre dei sogni miei, sento l’immenso

gaudio dell’infinito, e penso e chiedo:

 –Sarà così la gloria?

Le motivazioni che mi portano a preferire questo scritto rispetto alla più usata citazione
sono diverse. Oltre alla brillante vena poetica che riesce ad arricchire la descrizione del monte di particolari non solo fenomenologici, ma anche interni alla percezione dell’autrice (dolcissima muraglia), alla stessa natura del monte vengono attribuite capacità poetiche, in grado di suscitare in chi la osservi stupore e affezione (alta e superba poesia dei graniti scintillanti… qual visione d’asceta innamorato!). E ancora, agli elementi naturali vengono attribuite capacità e doti umane (Il bosco tace e pensa), e alcune di questo li rendono in grado di instaurare un vero e proprio dialogo l’uomo (e al mio sorriso sorridon nell’azzurro… le adorate terre dei sogni miei). Infine, ma non per importanza, compare nella poesia un dato antropologico, che ci consegna l’immagine di un monte abitato e soprattutto conosciuto da pastori e banditi, che sono in grado di dialogare con lui e coglierne i segnali (Roccie che … a sera, invitano il pastore, fiero dall’occhio acuto di sparviero, ad esplorarle in cerca di misteri).

Alla faccia di chi continua a sostenere l’immagine di una Sardegna selvaggia e silenziosa. 

La Sardegna parla, e scrive poesie.

  • BROTZU, Renato, RUIU, Domenico et al. – 2020, Atlante del monte Ortobene. Paesaggio, archeologia, vegetazione, funghi, fauna, storie e personaggi, Comune di Nuoro.
  • BELLODI TURCHI, Dolores – 1978, Oliena…Barbagia…Sardegna, Tipografica Solinas, Nuoro.
  • LIGI, Gianlcuca -2016, Lapponia. Antropologia e storia di un paesaggio, Milano, Unicopli.
  • SATTA, Salvatore – 1999, Il giorno del giudizio, or.1979, Ilisso, Nuoro.
  • TURRI, Eugenio -1974, Antropologia del paesaggio, Edizioni di Comunità, Roma.

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