Ti avevano detto che ci saremmo stati

Nella piccola collina accanto al piccolo paese umbro da cui vengo c’è un ancor più piccolo cimitero, di quelli con il cancello sempre aperto. Ci riposano i morti della mia famiglia e per me è un luogo così naturale e connesso alla vita del paese tanto da averci subito portato il mio ex fidanzato appena arrivati in Umbria per una vacanza. Vedo i miei occhi sorridenti in quelli dei miei nonni nelle foto e anche la tristezza mi sembra una cosa giusta e non soffocante.

La vista appena fuori dalla chiesa di Saragano, il mio paese in Umbria. Il cimitero è poco lontano e tutto lì mi sembra essere contenuto e a prova “di umano”

Cristiani o no, accompagnare i nostri cari nell’ultimo viaggio verso il cimitero dopo averli vestiti, salutati, toccati ci aiuta a costruire la ragione della loro assenza, ci indirizza su una strada che il tempo e la cultura aiutano a rendere percorribile mentre ci allontaniamo da loro. I loro corpi non sono “dispersi”, sappiamo dove sono perché li abbiamo accompagnati, ci facciamo rassicurare dalle linee ordinate e dai sentieri nei nostri cimiteri per sapere sempre dove trovarli. Non per tutte le culture è così, basti pensare ai BaNande, nella Repubblica Democratica del Congo, per i quali invece la morte “ha oblio”. I defunti si seppelliscono nel bananeto, si attende che le radici raccolgano i corpi e li portino a nuova vita nelle piante che rendono farina e birra. La vita avanti, e le nostre culture ci insegnano come, con il ricordare o con il dimenticare.

La morte in ogni parte del mondo è un evento sconvolgente, che rompe gli equilibri della comunità che si affretta a ricostituirlo con i propri riti e le proprie strategie. Per Ernesto De Martino ai vivi, dopo un lutto, rimane la “crisi della presenza”. Noi sopravvissuti dobbiamo imparare a dialogare con quel terremoto che il vuoto lasciato dalla persona cara crea, dobbiamo imparare a rispondere alla tentazione di abbandonarci al dolore, e il nostro gruppo è lì per noi, per rispondere alla lacerazione tra “noi” e “loro” che non ci sono più.
Nella società odierna il lutto è sempre più individuale? Il dolore è sempre più privato? Sì, ma non del tutto. C’è ancora estremo bisogno di condividere e trovarsi assieme fisicamente, di stringere le mani di chi ci porge le condoglianze, di farci invitare a pranzo o a cena quando non abbiamo voglia di cucinare, di piangere sulle spalle degli altri.

E con il covid?

Con la pandemia questo apparato simbolico, più o meno forte, in cui siamo stati cresciuti e acculturati per far fronte al lutto è dovuto cadere, in parte, se non del tutto. L’impossibilità di salutare un’ultima volta i ricoverati in ospedale e mai tornati ha creato una voragine attorno a queste perdite, che va colmata con il supporto psicologico, certo, ma anche con le parole degli antropologi che i riti li studiano perché sono nostre produzioni dotate di uno specifico significato. Questo significato è stato trascurato, sepolto dai discorsi epidemiologici, economici e politici, eppure io non voglio rimanga ignorato. In questo periodo storico non perdiamo soltanto la possibilità di salutare i nostri morti, ma anche quella di farci rincuorare, di stare insieme mettendo in atto quei comportamenti che abbiamo visto fare in altre occasioni e che in qualche modo ci hanno rassicurato raccontandoci di una morte “culturale”, che “accade così” perché i nostri genitori ce l’hanno raccontata così, perché prima della pandemia l’abbiamo vista “accadere così”. Il silenzio e le distanze create dalle restrizioni hanno inevitabilmente limitato il raccoglimento di chi si stringe ai familiari delle vittime di questo virus, che rimangono soli emotivamente e culturalmente.

E noi antropologi, noi antropologhe, non interpellati/e e così in sordina, dovremmo far valere le nostre ragioni per spiegarti che il tuo dolore per un parente che se ne va solo in ospedale, è tuo, rimane tuo, ma diventa più forte e nostro perché noi comunità non siamo potuti essere quelli che la cultura ti aveva insegnato ci sarebbero stati, ad ascoltarti, consolarti e a tenerti la mano mentre metabolizzi il tuo lutto, per chi se ne è andato e per i riti che non abbiamo potuto fare insieme. Ma non ci siamo stati.


Questo articolo vola basso, non ho citato la letteratura necessaria da Van Gennep a Hertz per raccontare cosa siano per l’antropologia i riti e i riti funebri, le loro fasi, ma volevo spendere queste due parole per indicare una prerogativa del fare antropologia che per me rimane imprescindibile: la sua restituzione. Cosa se ne fanno le persone che incontrerò dei frutti del mio lavoro? Se la risposta è “qualcosa” allora quel lavoro ha ragione d’esistere, allora quelle storie ho il dovere di ascoltarle perché insieme creino un cambiamento che non serve a me, per scrivere un articolo o una tesi, ma serve a tutti.
Riporto un estratto del saggio De consolatione anthropologiae. Conoscenza, lavoro di cura e Covid-19 del prof. Piero Vereni

Ecco perché credo che la Restituzione debba assumere una nuova valenza o, come io preferisco, recuperare la sua valenza originaria. Uscire da una concezione estrattiva e mercantilistica delle nostre conoscenze: vado “lì”, tiro fuori con i miei minatori-informatori i dati che mi servono, me li porto in laboratorio, li processo e poi, bontà mia, riporto “lì” quel che ho prodotto così sto a posto con la coscienza. Restituzione significa, piuttosto, che il nostro lavoro, assieme alla sua parte creativa, implica una parte di cura delle persone con cui/di cui studiamo. Io mi sento obbligato a parlare di come lo stato di cose attuali ristruttura la funzione simbolica non perché sono un tuttologo (parlo dell’unica cosa che conosco: la strutturazione simbolica del reale, quella cosa che ormai il senso comune chiama “la cultura”) ma perché sono un esperto di questo argomento e mi sento in dovere di partecipare al lavoro di cura di una specie animale che in questo momento deve riformulare molti dei suoi frames simbolici, delle metafore we live by, e che non sa che pesci pigliare. Quando mi raccontano lo strazio dei portantini della provincia di Treviso che vanno a prendere i positivi a casa e li portano via senza che i cari li possano abbracciare, e sento dire che per quel personale medico sotto uno stress indicibile si sta preparando un supporto psicologico fatto solo di psicologi, io penso che sia sbagliato, penso che ci vorrebbero anche gli antropologi a parlare con quelle persone, perché il loro stress è di ordine culturale, viene da fuori di loro, non da dentro. Quando mia figlia adolescente (che vive con la madre da cui sono divorziato) piange al telefono perché non riesce ad andare d’accordo con la madre e si colpevolizza, io mi sento in obbligo di spiegarle che non ha motivo di colpevolizzarsi e che dovrebbe accettare il fatto che la frattura delle routine quotidiane implica uno smarrimento profondo, che nei giovani non può che essere ancora più profondo perché colpisce strutture simboliche in fase di consolidamento. Quando amici di Bergamo mi raccontano che è un disastro totale non solo il numero dei morti, ma il fatto che non li possono seppellire con un funerale, ma non li possono abbracciare, vestire, e attuare quelle pratiche di cura dei morti che ci hanno resi umani, io mi sento di parlare con quelle persone, di rassicurarle che la dimensione rituale ora sopita troverà presto una forma pubblica e condivisa, che è l’unica forma che i rituali funerari non solo possono, ma debbono prendere. E vorrei che queste cose le scrivessimo noi, che siamo esperti della strutturazione simbolica della vita associata, che sappiamo meglio degli psicologi e dei pedagogisti e dei filosofi che cos’è un rituale. E invece queste cose le vedo scritte, spesso male, da giornalisti che non hanno le competenze, oppure anche da giornalisti bravi (c’è un articolo straziante e preciso sul Post.it) ma che non possono lavorare per prendersi cura, per curare, quello che descrivono. Ecco, l’ho detto. La funzione terapeutica della nostra disciplina è quel che io considero il senso radicale della Restituzione. Prima di Capire, prima di trovare la Grande Teoria (per questo ormai detesto riviste come Hau) avremmo il dovere morale di prenderci cura con gli strumenti che SOLO NOI possediamo delle nostre comunità, tanto più oggi che pandemie come questa fanno della nostra specie un’unica potenziale comunità. Se stiamo zitti adesso, temo, ci saremo una volta di più condannati all’irrilevanza del nostro sapere. Come poi una scienza umana possa comportarsi così disumanamente e tacere di fronte al dramma in atto, senza mettersi a disposizione per dare anche solo una parola di conforto a chi sta male, per me resta un mistero.

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