Cos’è la ricerca sul campo(II): Incontrarsi

Mi piacerebbe leggere i diari di campo di tutti/e gli/le antropologi/ghe del mondo per sapere cosa hanno scoperto nella frattura che si apre in noi quando parliamo con una persona che non conoscevamo prima e che invece ci racconta di “luoghi nostri” che non sapevamo di abitare, quando l’Altro sa dirci qualcosa sul nostro conto.

Non sono ancora sul campo di ricerca, mi ci sto avvicinando a piccoli passi: l’affitto della casa, l’organizzazione del trasloco, uno sguardo ai libri, i primi contatti con la gente del posto, ma anche le prime battute, i primi dubbi, i consigli, su cosa fare, cosa dire e cosa no, le prime storie. Le più belle sono quelle che arrivano senza averle richieste, e nascono guardando un oggetto, ascoltando suoni o fermando ricordi che passano improvvisi.

Fare etnografia vuol dire trasportare il proprio corpo sul campo, costruire ed immergersi in una rete di relazioni che saranno la fonte da cui trarre tutte le informazioni da rielaborare nel prodotto finale, che può essere una tesi, un libro, ma anche un documentario o, perché no, un podcast. Il cuore di tutto rimane l’incontro, la predisposizione all’ascolto e all’osservazione di ciò che l’Altro vuole condividere. Fin qui l’antropologo/a non si discosta molto dalla figura del giornalista, ad esempio, bisogna quindi aggiungere due elementi.

Innanzitutto l’”observed” sa perfettamente di essere “osservato”. Si entra in casa sua, lo si accompagna sul posto di lavoro, si invade di fatto la sua quotidianità per “fare una ricerca” che lo riguarda in prima persona. Tutte queste azioni modificano immancabilmente la sua comunicazione e non si deve mai avere la presunzione di poter trarre dall’Altro tutte le informazioni in suo possesso. Bisogna chiedersi cosa sia “autentico” e cosa pronunciato per “fare un piacere” al/alla ricercatore/trice, o per sviarlo da argomenti scomodi. Tutto quello che si ascolta sul campo è frutto di una negoziazione, di un patto che si stabilisce tra due persone. Si creeranno situazioni felici in cui l’antropologo/a incontrerà apertura e condivisione, altre in cui si scontrerà con silenzi, ma anche questi saranno utili a creare un quadro chiaro in cui le lacune sul contenuto saranno colmate dall’osservazione dell’esistenza di “zone di silenzio” che vanno sempre e comunque rispettate.

Un/una giornalista, inoltre, non manifesta in maniera esplicita il proprio punto di vista, anzi, cercherà di annullarlo vendendo una comunicazione all’apparenza neutrale. Gli/le antropologi/ghe etichettano come impossibile questa operazione. Per tanto tempo ci si è lamentati, come Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore, “dello scomodo diaframma che è la mia persona”, e non si è visto, in questo diaframma, una risorsa. Tutto quello che il/la ricercatore/trice è, prima, durante e dopo il campo, diventa un filtro necessario attraverso cui tutto passa per poi essere rielaborato. Come si guardano e ripropongono le informazioni è anch’esso, a sua volta, degno di interesse antropologico. Non esiste essere umano privo di cultura che gli abbia insegnato come “guardare” gli Altri. Quello che è importante fare è manifestare, rendere esplicito e chiaro, il proprio punto di vista, i propri valori e la forma del proprio sguardo sugli Altri, abbandonando l’ottocentesca pretesa di star scrivendo la Verità su quanto si è studiato. Questo non toglie dignità alla disciplina, la rende più umana, afferrabile e rispettosa degli incontri che la rendono possibile. La cultura è un prodotto complesso, un intreccio perfetto tra biologia e scelte umane che è possibile studiare con un approccio multidisciplinare tenendo a mente che non siamo alla ricerca di dati, ma di significati.

Sul mio diario di campo, comunque, c’è scritto:

Quello che sapevo sul mio conto era sbagliato

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