Se stai leggendo questo blog probabilmente mi conosci e conosci anche l’antropologia. Questo mi rende felice e ti ringrazio, ma ti perdi il meglio della mia comicità se non posso declinare davanti a te mirabolanti impieghi in scavi archeologici con un “guarda che io lavoro con i vivi!”.
Questa disciplina vive un po’ nell’ombra, essendo giovane (nata verso la fine dell’800), dai confini morbidi e in grado di mutare velocemente, come le culture al centro del suo studio. Il motivo per cui mi piace di più è che ogni tanto gli ambiti che abbraccia aumentano di numero, e io mi stupisco che l’antropologia possa essere anche un’altra cosa. Se siete delle persone curiose che si annoiano con estrema facilità potete capirmi. Ma quindi
COS’È L’ANTROPOLOGIA?
L’antropologia è una disciplina che studia il genere umano osservando le diverse culture che lo caratterizzano, dalla preistoria alla contemporaneità.
Le culture attraverso cui il genere umano si esprime sono innumerevoli e il fatto che gli esseri umani abbiano una cultura costituisce un carattere universale che lega tutte le comunità del mondo (e questo è uno dei motivi per cui l’antropologia è una disciplina antirazzista). MA LA CULTURA COS’È?
Edward Burnett Tylor, padre dell’antropologia accademica, nel 1871 dà a tutti gli studenti di antropologia del passato, del presente e del futuro una definizione da imparare a memoria, da mangiare al posto dei cereali per colazione, dipingere sui muri, stampare sulle magliette, da tatuarsi sul cuore:
“La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualunque altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una società”
Queste righe sono uno scrigno di novità, per l’epoca, e di indicazioni per il presente. È comune dire a chi dimostri di padroneggiare svariati argomenti “sei una persona di cultura!”, ma la cultura di cui parlano gli antropologi è patrimonio di tutti e di tutte. La cultura riguarda ogni aspetto della nostra vita: gli dèi che preghiamo, il lavoro che facciamo, chi possiamo sposare e chi no, come ci comportiamo di fronte ad un lutto, come accogliamo un ospite e cuciniamo per lui, se guardiamo a destra o a sinistra prima di attraversare la strada, la nostalgia che proviamo una volta lontani dai paesaggi che ci fanno sentire “a casa”. Inoltre acquisiamo la cultura che ci è propria perché siamo all’interno di una società. L’educazione e l’imitazione realizzano in noi una riproduzione dei modelli in cui cresciamo immersi.
Se la cultura è caratteristica dell’Uomo in ogni luogo e in ogni tempo ecco spiegato perché l’antropologo/a è una figura lontana dalla stereotipo che lo vuole solo/a, in Amazzonia o nel Sahel, accanto a piccole comunità, intento/a a studiarne cultura materiale e rituali. Certo, molti/e antropologi/ghe salgono su un aereo e raggiungono realtà a km da casa propria, ma altri/e lavorano anche nei contesti urbani, si interessano alla società dei consumi e ai suoi nuovi modelli di comunicazione, studiano il nostro modo gestire gli spazi e i luoghi che abitiamo e trasformiamo. L’antropologo/a è quindi qualcuno che guarda ai contesti e agli stili di vita degli Altri, ma anche ai propri.

C’è però una cosa da cui bisogna guardarsi bene: dare per scontato che l’antropologo/a sia una persona Occidentale, plurilaureato/a, in grado di parlare molte lingue e con un portafoglio che gli/le consenta di viaggiare in giro per il mondo. E sì, se stiamo cercando dei “dottori in antropologia” li troveremo, ovviamente, nelle università. Ma tutte le comunità del mondo hanno un’antropologia implicita. Tutte hanno prodotto discorsi sul genere umano dal proprio punto di vista e li esprimono non con monografie o tesi di dottorato ma in poesie, preghiere, racconti, miti, rituali. Un antropologo o un’antropologa non è esclusivamente qualcuno che si reca in un paese lontano per studiare, dall’alto, gli “Altri”, ma è qualcuno che si avvicina con rispetto alle antropologie implicite degli Altri, riconosce il proprio punto di vista e lo considera il filtro attraverso cui guardare la propria esperienza sul campo di ricerca in cui deve immergersi mente e corpo.
Quando dico “mente e corpo”, lo intendo davvero. L’antropologo/a per svolgere la propria ricerca deve trascorrere un lungo periodo a contatto con la realtà che intende studiare, sia essa lontana o dietro casa. Deve mangiare quello che le persone che incontra gli offrono, dormire le loro stesse ore di sonno, soffrire come loro il freddo o il caldo. Non tutto può essere colto tramite interviste o questionari, ci sono lati dell’esperienza umana che si possono cogliere solo tramite la partecipazione attiva a questi.
L’antropologia mi piace perché è una disciplina di tutti/e e per tutti/e. Prima di avere un titolo accademico bisogna avere un’”anima antropologa”, essere allergici al razzismo, all’etnocentrismo, all’esotismo con cui troppo spesso di guardano le culture degli Altri e ai pregiudizi. Se nutri sincera curiosità e rispetto per gli infiniti modi con cui l’essere umano ha imparato nei secoli ad abitare la Terra, sei antropologo/a anche tu.